Abbandonare la comfort zone, muoversi, mettersi alla prova, agire: da un po’ di tempo lo spettro della comfort zone mi assilla e sono abbastanza sicura di aver ammorbato più di una persona ripetendo ossessivamente che lasciarmela alle spalle è uno dei miei obiettivi futuri.
Di cosa stiamo parlando, innanzitutto? Parafrasando liberamente Wikipedia, la
comfort zone è uno stato mentale che ci fa sentire a nostro agio, nel nostro orticello conosciuto, senza ansia e senza stress. In questo stato si è in grado di mantenere prestazioni costanti, per esempio nel lavoro, senza grandi sbalzi, ma senza la possibilità di fare passi avanti (e neanche indietro): si resta in una posizione neutrale dove incertezza e vulnerabilità sono ridotte al minimo e dove si è convinti di avere un certo controllo sulla propria vita.
Mi sento soffocare già solo mentre lo scrivo: abbandonare la comfort zone, dunque.
Da qualche parte bisogna cominciare: già scrivere il blog e metterci – ogni tanto – la faccia è per me un modo di abbandonare quello stato di tranquillità e di quiete che finisce al termine del mio divano. Ma non basta e quindi cerco altre vie.
Ed è così che circa un mese fa mi si è accesa la spia di “massima allerta: attentato alla confort zone” leggendo nella newsletter della Fondazione dell’Ordine degli Architetti di Milano di una
call per la ricerca di un curatore per tre serate di architettura da tenersi presso la Fondazione. Dovevo partecipare.
E siccome ho chiesto incoraggiamento tramite la pagina Facebook, ora vi racconto pure come è andata e come è finita. Non sono stata selezionata, ve lo dico subito, ma non è questo il punto rilevante.
La fase più difficile è stata superare la pigrizia e prendere una decisione (partecipo o non partecipo?): mi ci sono voluti 12 giorni dei circa 16 che avevo a disposizione per partecipare. Qual era il problema? Non avevo né un’idea pronta, né la necessaria esperienza come curatrice, né il tempo materiale per prepararmi adeguatamente secondo i miei standard di perfettina cronica. E perché allora volevo partecipare? Credo perché il mio lavoro ultimamente mi sta stretto come quelle coperte corte che non importa cosa facciate o quanto vi sforziate: vi lasceranno sempre scoperti i piedi o la schiena.
Mi è venuto in aiuto il post di un’amica che racconta della sua prima volta da insegnante in un workshop. Il titolo era inequivocabile: “Di figure di merda non si muore”. E alla fine il segreto è tutto lì e quindi via, si partecipa.

Senza entrare troppo nel dettaglio, il filo conduttore delle serate doveva essere una variazione sul tema del progetto, anche nel suo rapporto con altre pratiche e discipline. La forma doveva invece essere quella di una talk con uno o più relatori e con eventuali proiezioni. Quindi per prima cosa, trovare un tema e dei relatori ai quali chiedere di partecipare e dei quali verificare la disponibilità per date ipotetiche da qui a tre mesi.
L’idea non è andata di molto lontana da questo blog. Ho pensato ai progetti di chi l’architettura la racconta perché la ama: e quindi a come cambia la rappresentazione in base a differenti media, blog e social network compresi. Ho pensato a progetti di sperimentazione ai confini della sfera del sociale nei quali mi sono imbattuta in questi ultimi mesi e che mi hanno ridato ispirazione e fiducia nella nostra professione. Ho pensato a progetti di ricerca e di inchiesta sul ruolo degli architetti, sulle questioni di genere e sulla crisi professionale, temi che mi stanno particolarmente a cuore.
In poche ore ho contattato alcune persone che lavorano in questi campi – quasi tutti architetti – che non conosco personalmente, ma delle quali seguo le attività tramite canali online. Incredibilmente mi hanno dato tutte – tutte – la loro disponibilità oppure aiuto per la ricerca di altri contatti.
Ancora una volta il rapporto con le persone si è rivelato la parte migliore dell’esperienza e, per una tendenzialmente asociale come me, non è così scontato ed è sempre una bella sorpresa.
Restava da scrivere la proposta e mettere insieme gli allegati richiesti dalla Call, cosa a cui ho dedicato VERAMENTE poco tempo, perché in genere l’universo cospira per incasinarti la vita quando hai in mente di fare qualcosa, ma una volta iniziato ero ormai diretta all’obiettivo e quindi sono riuscita ad inviare il tutto a dieci minuti dalla scadenza.
Fine?
Sì, confesso che a quel punto per me l’obiettivo era già raggiunto: ero consapevole di essermi vestita da cosplayer di una curatrice e che fra le altre proposte presentate ce ne sarebbero certamente state di meno cialtrone della mia.
Con questo spero di non mancare di rispetto alle persone che ho coinvolto: avevo piena fiducia nell’interesse che avrebbe suscitato il loro lavoro, ma ne avevo poca nelle mie potenzialità, as usual. Non lo dico per farmi contraddire: non servirebbe, perché comunque l’unico giudizio che tengo veramente in conto è il mio, che è implacabile.
Non parlerò mai abbastanza della Sindrome dell’Impostore con la quale mi confronto quasi quotidianamente, quella visione distorta di se stessi che porta a convincersi, nel profondo, di non meritare i propri successi nonostante gli altri ci riconoscano capacità e competenze, e a pensare che tali successi siano dovuti alla fortuna o al fatto di apparire più intelligenti e preparati di quanto non si è veramente. E a vivere nel terrore che qualcuno prima o poi se ne accorga e ci smascheri.
Con questa Call, quindi, doppio risultato, perché oltre all’abbandono della comfort zone mi sono anche esposta in un campo in cui so oggettivamente di non essere preparata, al pensiero di #chissene.